Made in America, America first, erano gli slogan della campagna elettorale delle presidenziali Usa concluse con la vittoria inaspettata del controverso tycoon newyorkese Donald Trump. L’elezione di Trump a presidente e le prime contraddittorie mosse e provvedimenti presi dopo l’insediamento, richiedono un doveroso approfondimento quantomai necessario per smitizzarne la portata. La delocalizzazione produttiva dell’attività manifatturiera nei paesi a più basso costo della manodopera, è un processo iniziato negli Usa nei lontani anni ’80, cresciuto sempre più fino a raggiungere livelli che in Europa e soprattutto in Italia, seppur cresciuti, sono molto differenti e comunque non così esasperati.

Se pensiamo che il vero “made in Usa“, inteso come attività manifatturiera ,in settori come ad esempio le calzature e l’abbigliamento è praticamente scomparso limitandosi ormai al 5% del venduto, si comprende facilmente la presa emotiva che lo slogan populista del ritorno al Made in America può avere su una vasta platea di elettori. Come al solito però la realtà è decisamente più complicata e molto lontana dagli slogan di una campagna elettorale. L’imposizione di dazi all’importazione, ricetta proposta per “favorire” il reshoring dall’estero, ha un impatto multiforme sull’economia. Certo però è che l’Intervento non si traduce in un rapido incremento di produzione di quei beni e conseguentemente di occupazione, nel paese che i dazi li introduce. Intanto si deve osservare che la disponibilità di manodopera a basso/bassissimo costo nel mondo è decisamente abbondante, così se si introducono dazi verso un paese la produzione si trasferirà presto altrove vanificando l’effetto dei dazi. La soluzione diventa allora quella di imporre dazi a qualsiasi paese a basso costo, determinando un effetto domino che non porta a nessun risultato se non a limitare i commerci.

Se si guarda poi alla interconnessione ormai inestricabile a livello mondiale fra le fonti di approvvigionamento dei vari componenti e quindi delle competenze che servono alla produzione, si deve ormai constatare che qualsiasi prodotto sia in pratica da considerare “apolide” . Ne consegue che la tradizionale nozione di “made in” riassume un significato ben diverso rispetto all’indicazione del luogo dove avviene l’assemblaggio finale. Applecon i suoi prodotti è emblematica di questo, “made in….” si è trasformato in “Designed in California by Apple”: la produzione intesa come assemblaggio, realizzata con componenti provenienti da Asia Europa e Usa è svolta in Cina e prossimamente lo sarà anche in India ,la progettazione e il design, i veri generatori di valore, sono però made in California. Il risultato è che nessuno è interessato al luogo o al modo di produzione dell’iPhone, il focus è unicamente sul prodotto e sulle sue caratteristiche.

Un altro esempio particolarmente significativo in proposito ,rimanendo sul mercato Americano, è quello relativo a Bmw. Lo stabilimento americano di Spartansburg è il centro mondiale deputato alla produzione della maggioranza dei Suv del brand, questo ne fa in assoluto il principale singolo impianto di assemblaggio della casa, anche più grande di quelli tedeschi. La produzione annua di 675.000 pezzi è per più del 70% destinata all’esportazione, i motori e parte della componentistica sono però prodotti altrove ma soprattutto in Europa. Analogo discorso riguarda le fabbriche messicane dove tutti i costruttori americani ,ma anche molti europei ed asiatici, assemblano circa 3 milioni di auto. I motori e molta della componentistica utilizzata sono spesso made in Usa ,il prodotto finito a volte ritorna negli Stati Uniti ma spesso prende la via di altri mercati internazionali. Ad esempio Audi ha appena iniziato la produzione della nuova Q5 in uno stabilimento appositamente costruito, sarà l’unico centro di produzione a livello mondiale per questo modello.

Sono alcuni emblematici esempi che dimostrano quanto difficile e illusoria sia una politica di reshoring imposta dall’alto ,svincolata dal contesto economico/produttivo basato sulla complessità delle catene del valore e la logistica globali. Produrre in un luogo piuttosto che in un altro, è il risultato di una serie di variabili complesse, non solo e non sempre legate al costo della manodopera e nemmeno ai dazi. Il ricorso crescente all’automazione e alla robotizzazione di una buona parte dei processi produttivi a sua volta favorito dalla crescente standardizzazione dei componenti, come noto si parla già di fabbrica 4.0, sono poi destinati a lasciare sempre più in secondo piano l’importanza del fattore umano inteso come l’operaio alla catena di montaggio. Come si spiegherebbe altrimenti il successo di export della Germania, paese dove il costo della manodopera è uno dei più alti al mondo, ben più alto che negli Stati Uniti.

Buy American e Made in Usa sono slogan politici sicuramente di facile presa, salvo poi scontrarsi con la realtà economica che vede la necessità di disporre da parte del consumatore medio americano, magari entusiasta sostenitore di Trump, di prodotti di consumo a basso se non bassissimo costo. Produzioni che non saranno mai realizzabili negli Usa a prezzi comparabili, se non nelle future fabbriche automatiche 4.0 con il minimo dei dipendenti possibile. Chissà se qualcuno sarà capace di realizzare quella che sembra essere la quadratura del cerchio: prezzi bassi, produzione made in usa, occupazione dei lavoratori meno qualificati. Forse Trump, almeno a parole, prossimamente ci dirà come fare.

Scritto da Giovanni Papini e pubblicato in originale su www.professional-luxury.com


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