Parlare di reshoring implica necessariamente far riferimento al fenomeno della globalizzazione e della possibilità delle aziende di tutto il mondo di delocalizzare la produzione in Paesi diversi dal loro, per aumentare i profitti in relazione ai minori costi di gestione dei processi.

Il reshoring è il percorso inverso alla delocalizzazione, conosciuta anche come offshoring, e da un po’ di tempo molti Paesi cominciano a guardarvi come a una possibile strada verso una ripresa economica e verso maggiori tutele in caso di crisi. Il Covid 19 ha naturalmente aumentato queste riflessioni perché molti sono stati i problemi legati alla distanza tra le sedi dell’azienda e le sedi degli stabilimenti fornitori, tra cui ritardi di consegne o mancate consegne a causa del blocco della circolazione e degli spostamenti. Problemi che si sono accentuati soprattutto in quei settori che proprio grazie alla pandemia hanno visto crescere la domanda (sport all’aperto ecc..) e la cui produzione si individua principalmente in realtà offshore. Ciò che va in crisi è il concetto, e il funzionamento, della Global Supply Chain, avvertito soprattutto da catene di fornitura molto lunghe: tra l’offshoring e il reshoring, infatti, risiede quello spazio di possibilità rappresentato dal near shoring, cioè dal semplice avvicinamento degli stabilimenti produttivi ai Paesi d’origine, anziché dal loro completo ritorno ad essi e, in questo caso, si può parlare di catene di fornitura corte, non interessate, se già in essere prima della crisi, da spostamenti e riduzioni, ma attuate, al contempo, da realtà che non hanno voluto o potuto ricondurre le attività nel Paese d’origine. Date queste premesse, cerchiamo di tastare il polso della situazione di questi fenomeni in direzione contraria ad una economia che fino ad ora sembrava aver abbattuto barriere e confini di ogni sorta.

Secondo un rapporto Banca d’Italia del 17 febbraio 2021, in relazione al Covid-19 e intitolato LE CATENE DEL VALORE E LA PANDEMIA: EVIDENZE SULLE IMPRESE ITALIANE, di Michele Mancini, si evidenzia come, in realtà, nonostante la situazione e le tendenze, in Italia oltre il 60% delle imprese non ha ridotto la propria presenza nei mercati internazionali negli ultimi tre anni, mentre il 78%, appoggiata a fornitori esteri, non ha intenzione di ridurne il numero. Tendenze e dati che rispecchiano la situazione anche di altri Paesi quali Stati Uniti dei quali si apprende, dal China Business Report del 2020, che il 71% delle 200 imprese intervistate, non intende chiudere i propri stabilimenti in Cina, al pari della Svezia, della quale si evince, da un’indagine della Confederation of Swedish Enterprise, che solo il 2% delle aziende intervistate intende riportare le proprie produzioni a casa. A sua volta, un’indagine Allianz condotta su circa 1200 multinazionali tra Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e Italia, rivela che solo il 15% di esse intende riportare la produzione nei Paesi d’origine e circa il 30% sta pensando di spostarla in Paesi vicini, ricorrendo al near shoring. Le difficoltà di aderire pienamente e senza riserve al ricollocamento della produzione nei Paesi d’origine possono essere di varia natura, ma interessante è ciò che emerge dal citato rapporto di Banca d’Italia, e cioè che in realtà molte aziende faticano a  rispondere delle conseguenze della cessazione delle relazioni internazionali dovute alla partecipazione alle GVC (Global Value Chains) per le quali hanno versato un capitale importante, non recuperabile nel caso di interruzione delle stesse. In questo contesto, tuttavia, rimane la convinzione che attuare strategie di reshoring possa comunque aiutare molti settori nella fase della ripresa e soprattutto porre le aziende in condizioni di vantaggio nel caso altre crisi internazionali si profilassero all’orizzonte. Gli incentivi sono sicuramente una delle strategie più accreditate per aiutare le aziende in questo percorso e, per quanto riguarda l’Italia, sono la strada segnalata da alcuni studenti della Laurea Magistrale in Gestione d’azienda, corso di Libera Professione e Diritto tributario, coadiuvati dal Professor Francesco Timpano e un Team di esperti nazionali, come si apprende da un articolo del 18 giugno scorso di innovationpost.it.

Il Team di laureandi ha elaborato, infatti, una proposta intitolata Reshoring Special Zones, in base alla quale, per raggiungere l’obiettivo di aumentare la competitività del Paese attraverso il ritorno del tessuto produttivo, si potrebbero istituire delle Zone Economiche Speciali dislocate nel Sud Italia al fine di ridurre il divario crescente con il Nord, adottando alcune misure di ordine burocratico, fiscale ed energetico.

Dalle agevolazioni fiscali del 50% dietro investimenti in direzione di sostenibilità ambientale, fino a sconti del 60% sui contributi dei dipendenti se si assumono donne o under 35, passando per facilitati, costanti e frequenti rapporti con il Ministero dell’Industria, del Commercio e Investimenti e dell’Energia Verde e Digitale, lo stimolo a rientrare, in questa proposta, non manca.

L’European Reshoring Monitor è un progetto che, a livello europeo invece, ha seguito e registrato, dal 2015 al 2018, i casi di quelle aziende, che ormai dal 2011, hanno iniziato a riportare a casa i loro stabilimenti. Ad oggi se ne contano circa 250, di cui 140 hanno completato il processo entro il 2020. Secondo i dati e le proiezioni i posti di lavoro creati da queste operazioni saranno 12.840. Nonostante questi numeri, però, non si può affermare con tutta certezza che la globalizzazione sia davvero in crisi, anche perché il reshoring è comunque un fenomeno relativamente recente. Un dato però lo si coglie abbastanza chiaramente: le aziende interessate al reshoring appartengono principalmente al settore manifatturiero, ma seguono il cambio di rotta anche le aziende hig-tech. Per quanto riguarda le motivazioni che hanno spinto le aziende in questa direzione, l’European Reshoring Monitor ha individuato, tra le altre:

  • Tempi di consegna
  • Effetto “Made in”
  • Maggiore automazione dei processi in loco
  • Problemi doganali
  • Volontà di incrementare la produzione locale
  • Implementare i processi di innovazione
  • Aumento del costo del lavoro nei Paesi in cui si era delocalizzato
  • Costi della logistica

In Italia è interessante il caso della Campania dove le imprese della moda hanno chiesto l’intervento della Regione a favore di misure per facilitare il rientro dei loro stabilimenti sul territorio. Il Comitato regionale della moda, che da qualche anno si riconosce nel Modec (Marchio della Moda e del Design della Campania), ha condotto uno studio sottoposto poi al Presidente della Giunta, De Luca, e all’assessore alle attività produttive Marchiello, al fine di presentare i suoi intenti. Le motivazioni risiedono principalmente nella voglia di affrancarsi dalla dipendenza estera che il Covid ha ampiamente dimostrato essere un fattore di debolezza e, contemporaneamente, di rilanciare un territorio che potrebbe godere dell’aumento dell’occupazione e della produzione. Con un fondo regionale di garanzia, con rimborso in vent’anni e a costo zero, è questo ciò che chiedono le aziende alla Regione Campania, l’obiettivo del reshoring e del rilancio produttivo del settore moda potrebbe essere realmente perseguibile. Un cammino ancora lungo ad oggi, ma emblema del nuovo clima e umore dell’imprenditoria italiana.

Scritto da Anna Minutillo

Photo by Timo Wielink on Unsplash


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